venerdì 30 dicembre 2016

Il Tabernacolo delle Fonticine. Un capolavoro ritrovato

A volte ritornano…a splendere. Piccoli capolavori artistici disseminati negli angoli della città, per decenni avvolti nell'oblio, protagonisti dell’incuria urbana e dell’indifferenza generale. La polvere, il degrado, le ferite inferte dall'intemperie diventano i tratti somatici di queste malinconiche icone di un’abbondanza artistica inversamente proporzionale agli investimenti pubblici destinati al capitale culturale italico. Asimmetria di cui spesso cadono vittima anche esempi ben più illustri e conosciuti. Crowdfunding, finanziamenti di privati e art bonus sono le recenti frecce innestate sull'arco delle iniziative a sostegno del patrimonio pubblico culturale.  
Ristretto tra i negozi che con ritmo serrato scandiscono i fianchi di via Nazionale, alla confluenza di via dell’Ariento con la vista sulla distesa di barrocci del mercato di San Lorenzo e sulle Cupole della basilica omonima. Testimone del sottostante traffico cittadino e dell’incurante via vai antropico multilingue, incessanti giorno e notte. Vituperato dal tempo che fende in superficie e in profondità, come un veterano di guerra segnato sul corpo e nell'anima. Poi le impalcature, i tubi metallici che lo recingono, le tecniche salvifiche e le mani delicate dei restauratori restituiscono ad antico splendore il cinquecentesco Tabernacolo delle Fonticine.


La “rinascita” è frutto, secondo quanto twittato dal Comune di Firenze, di otto mesi di restauri e un esborso economico di quasi 90 mila euro elargito interamente da un ente privato, l’Istituto internazionale di studi Lorenzo de’ Medici, a cui spetteranno anche le future spese di manutenzione del bene per evitare pericolose ricadute di decoro.
Il Tabernacolo è costituito da una struttura architettonica in pietra serena delimitata agli estremi da colonne sormontate da un arco a tutto sesto. Al suo interno è ospitato un grande bassorilievo in terracotta invetriata policroma, realizzato nel 1522 da Giovanni della Robbia, raffigurante la Madonna col Bambino fra i Santi Barbara, Luca, Jacopo e Caterina sovrastati dal Padre Eterno, Spirito Santo e angeli. Una cornice floreale, con teste di santo, racchiude la scena sacra.




E’ l’opera più prestigiosa tra quelle commissionate dalle cosiddette “Potenze festeggianti”, compagnie laiche rionali dai nomi altisonanti composte da popolani dedite all'organizzazione di esibizioni, sbandieramenti, spettacoli, banchetti e finti combattimenti che sovente degeneravano in risse e sassaiole. Attive dalla metà del ‘300 ai primi decenni del ‘600, le potenze furono liberalmente sovvenzionate dai Medici perché considerate una valida valvola di sfogo e distrazione dalla politica per il popolo minuto. Ingente la liquidità di fondi nelle casse del “Reame di Biliemme”, tale da potersi permettere di incaricare la bottega dei Della Robbia per la realizzazione del Tabernacolo.
Il nome “Fonticine” deriva dalle sette cannelle a forma di protomi di cherubini da cui zampilla acqua nella vasca marmorea ai piedi del tabernacolo.



Gli interventi conservativi e di consolidamento hanno coinvolto l’intero tabernacolo che presentava un’omogenea precarietà nel suo complesso. Un restyling a 360 gradi dalla struttura in pietra serena alla copertura in scaglie di laterizio, dalla pala invetriata al serramento vetrato, dalla vasca marmorea all'impianto idrico. Adesso non rimane che togliere le transenne che stazionano davanti al tabernacolo e finalmente Firenze avrà un gioiello in più di cui fregiarsi. 

























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venerdì 9 dicembre 2016

Orsanmichele la chiesa-museo nel cuore di Firenze


Ritagliatevi un’ora di tempo in uno dei lunedì centrali del mese (né il primo né l'ultimo per intendersi) e recatevi in via dei Calzaiuoli a Firenze. Avrete l’occasione di visitare un gioiello architettonico nel pieno cuore di Firenze, ad ingresso gratuito per di più. Mi preme sottolineare il lunedì non perché voglia riempirvi l’agenda d’inizio settimana o perché mi rivolga esclusivamente ai parrucchieri. Ma, battute a parte, semplicemente perché è l’unico giorno della settimana in cui è possibile visitare l’intero complesso di Orsanmichele, l’edificio trecentesco metà chiesa e metà museo che sorge tra Palazzo Vecchio, Piazza della Repubblica e la Cattedrale di Santa Maria del Fiore. 



Curiosa la sua storia, straordinari i suoi apparati decorativi e strategica la sua posizione. Le origini di Orsanmichele risalgono all’epoca longobarda e più precisamente all’VIII secolo, anche se la prima citazione ufficiale è datata alla fine del secolo successivo. Sorgeva in questo luogo, circondato da campi e orti, un oratorio dedicato a San Michele che assunse il nome di San Michele in orto proprio per il contesto agreste che lo circondava. Da lì fu breve il passo, nel gergo popolare, all’abbreviativo Orsanmichele.

Nel 1239 il comune decise di abbattere l’oratorio e sulle sue macerie, come riporta il Vasari nelle Vite, su progetto di Arnolfo di Cambio sorse “di mattoni e con un semplice tetto di sopra, la loggia et i pilastri d'Or S. Michele dove si vendeva il grano”. Via il silenzio, le preghiere e lo spiritualismo; al loro posto le grida di contrattazione, gli scambi di granaglie, il caotico andirivieni dei mercanti. Due colonne della loggia furono affrescate con immagini della Madonna e di San Michele Arcangelo come commemorazione del culto un tempo praticato in questo luogo.

Nel 1337 l’Arte della Seta commissionò agli architetti Francesco Talenti, Benci di Cione e Neri di Fioravante la ricostruzione dell’edificio andato distrutto in un vasto incendio nei primi anni del 300. Fu realizzata una loggia che offriva riparo alle granaglie e alla splendida “Madonna delle Grazie” di Bernardo Daddi, inserita successivamente nell’altare monumentale dell’Orcagna che ancora oggi esalta l’interno della Chiesa di Orsanmichele. 
 

Nonostante le vicissitudini e la funzione commerciale imposta a più riprese, la primitiva vocazione religiosa di Orsanmichele non cessò mai di esistere. Anzi. Nel 1380 prese nuovamente vigore con l’ampliamento della struttura che fu innalzata di due piani: al piano terra le arcate della loggia furono chiuse con trifore in stile tardogotico e vetrate dipinte e l’ambiente fu consacrato alle funzioni religiose; i due piani superiori furono destinati a deposito del grano che veniva movimentato verso il piano terra attraverso canali e feritoie (ancora oggi visibili) scavati nei pilastri della struttura. 



La chiesa conservò l’originaria forma della loggia a pianta rettangolare, inconsueta per un ambiente religioso, che influenzò la disposizione degli spazi interni. L’altare della Madonna delle Grazie non fu collocato al centro come ogni altare maggiore, ma spostato sulla destra per la presenza del pilastro di fondo. L’organicità degli spazi fu bilanciata sulla sinistra dalla presenza dell’altare votivo di Sant’Anna con il gruppo scultoreo con Sant’Anna, la Madonna e il Bambino di Giuliano da Sangallo. Le volte del soffitto e i pilastri conservano integra l’elegante decorazione parietale di fine Trecento.

I quattro lati esterni dell'edificio furono ornati da quattordici tabernacoli con le statue dei santi patroni di tredici corporazioni delle arti fiorentine e del Tribunale di Mercatanzia (l’organo che giudicava le controversie commerciali tra i componenti delle varie corporazioni). Le varie arti scatenarono una competizione artistica commissionando le proprie statue tra il ‘400 e il ‘600 ai maggiori artisti presenti sulla scena fiorentina: Nanni di Banco, Brunelleschi, Ghiberti, Donatello, Giambologna, Andrea del Verrocchio per citare qualche nome. 

Le sculture oggi visibili all’esterno sono fedeli riproduzioni degli originali che, opportunamente restaurati, sono custoditi (se si esclude il San Giorgio di Donatello al Museo del Bargello) nel salone al primo piano. Costituisce questo, insieme al livello sovrastante, la parte museale dell’edificio restituita a splendore da intensivi lavori di restauro e consolidamento avviati dal 1960. Nei secoli è mutato il contenuto ma si è preservata la loro destinazione a deposito: ex granaio, ex Archivio dei Contratti e dei Testamenti nel 500 sotto Cosimo I, ora galleria di splendori scultorei e “museo di se stesso”. Due magnifici saloni, collegati da una stretta scala elicoidale, valorizzati dalle imponenti bifore, dalle volte a crociera in mattoni e dagli affacci unici ai cui si gode un panorama mozzafiato sui tetti e sulle meraviglie architettoniche che lo circondano. 
 
Sembra di poter sfiorare la Torre di Arnolfo di Palazzo Vecchio o la Cupola del Duomo, sospesi tra i centri nevralgici del potere civile e di quello religioso. Due anime che convivono nella stessa Orsanmichele e nella sua perfetta sintesi tra luogo sacro ed spazio pubblico.

Questa la parte che rischiereste di perdervi in un giorno qualunque. Eccetto il lunedì. 





Dove: Via Arte della Lana, 1 Firenze
Quando: la chiesa è aperta tutti i giorni con orario ore 10-17; il museo delle sculture è aperto il lunedì con orario 10-17, chiuso il 1° e ultimo lunedì del mese.
Costo: ingresso gratuito


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sabato 26 novembre 2016

Quando a "Firenze si poteva navigare". L'alluvione raccontata 50 anni dopo

“Da qualche giorno la pioggia cadeva incessante sulla città. Per uno strano scherzo del destino, la sera del 3 novembre, avevo visto al cinematografo il diluvio universale nel film La Bibbia. Inizia così il racconto della tremenda alluvione che funestò Firenze in quel fatidico 4 novembre 1966. A parlare è Milena, fiorentina purosangue classe 1927, nata e cresciuta insieme a sei fratelli nel rione di Santa Croce, anima vera e popolare della città. All'epoca dei fatti è una parrucchiera alle soglie dei quarantanni, proprietaria di un negozio molto conosciuto e frequentato nel suo quartiere di origine. “A quei tempi il 4 novembre era un giorno di festa, si celebrava la Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate. Avevo deciso di aprire ugualmente bottega per metà giornata per andare incontro alle esigenze delle mie tante clienti. Fu così che con mia figlia Gabriella e Daniela, una dipendente del negozio, partimmo con la Fiat 1100 bianca dalla mia abitazione in viale Malta con destinazione via dei Pepi”. Le fogne non ricevono più e per le strade c’è già uno strato consistente di acqua; le ruote dell’auto procedono lentamente mentre a bordo si ignora cosa stia realmente accadendo. “Arrivate in Borgo Pinti mi si spense il motore. Fu allora che il Ranfagni, un conoscente che aveva un negozio di tessuti nella zona, mi venne incontro urlando di fermarmi, di fare inversione e correre a casa perché «l’Arno l’è andaho di fori». Ci prese il panico”. Con sgomento ma senza indugi accolgono il consiglio, invertono la rotta e con molta apprensione guadagnano la strada di ritorno mentre l’acqua continua a salire. “La paura crebbe a tal punto che feci un voto: se fossimo arrivate al Campo di Marte sane e salve avrei acceso un cero alla Madonna nella Chiesa dei Sette Santi in viale dei Mille”. E così fu. Al Campo di Marte la situazione era relativamente tranquilla, tanto che prima di rincasare viene mantenuta la promessa fatta al volante pochi attimi prima. Poi via di corsa ad avvertire il marito della catastrofe che si sta abbattendo su Firenze. “Entrai in casa e Paolo ancora dormiva. Mi diressi diretta in camera da letto agitata e impaurita, «Paolo sveglia c’è l’alluvione, l’Arno è straripato!» gridai”. Essere svegliati di soprassalto non è il massimo, con una notizia di questo tenore ancora meno. Milena ricorda bene la reazione del marito, un uomo dalla scorza burbera stesa sopra un animo generoso. Alzatosi dal letto tra improperi e borbottii, iniziò a vestirsi urlando «Sie, inventane un’altra! L’Arno l’è andaho di fori, sarà l’acqua che esce da una fogna, andiamo a vedere».
Paolo è costretto a ricredersi appena arrivato ai piedi del cavalcavia ferroviario che unisce via Lungo l’Affrico con Piazza Alberti. Oltre non è possibile procedere per le auto ferme che occupano l’intera carreggiata del cavalcavia. “Lasciata l’auto da una parte, risalimmo a piedi il cavalcavia per vedere cosa stava accadendo. Giunti in cima, si prospettò davanti ai nostri occhi uno spettacolo atroce: un mare di acqua e fango aveva ormai invaso Piazza Alberti e le strade circostanti. Vedemmo una macchina trascinata dalle acque sparire in via Gioberti. Paolo rimase sgomento e solo allora comprese che le mie non erano farneticazioni. Dopo un iniziale smarrimento, mi riaccompagnò a casa e poi portò l’auto al sicuro al Salviatino, parcheggiandola lungo la strada che sale verso Fiesole. Nel tornare a casa a piedi scivolò e, cadendo a terra, si incrinò una costola”.

Ma non c’è tempo per lamentarsi, il muro che delimita la ferrovia ha frenato l’afflusso delle acque verso il Campo di Marte ma l’inondazione sta comunque raggiungendo inesorabilmente la loro casa in viale Malta. Finiscono sott'acqua le cantine e i primi quattro gradini dell’atrio. La zona oltre lo Stadio Comunale non viene toccata, se non marginalmente, dall'alluvione. Questo consente ai negozi della zona di rimanere aperti anche durante quei tragici giorni e dare così continuità alla fornitura di viveri e provviste. Tutt'altra situazione invece nel quartiere di Santa Croce dove il livello dell’acqua ha raggiunto i 4,5 metri di altezza. Milena descrive un’apprensione sempre più crescente. “Le comunicazioni erano ovviamente interrotte e il pensiero era rivolto alla mia sorella più grande che abitava col marito e tre figli in Via dei Pepi, a due passi da Santa Croce. Il figlio più piccolo, di appena cinque mesi, era allattato con latte artificiale. Non sapevamo se ne avessero esigenza o meno. Ma mio marito si imbatté fortunosamente in un suo amico che girava con un canotto. Comprò del latte in polvere e si fece dare un passaggio fino a Via del Fico per effettuare la consegna. Quel giorno a Firenze si poteva navigare”. Mai Paolo avrebbe immaginato di dover remare per spostarsi nella sua città, attraverso chiassi e vicoli resi irriconoscibili dalla piena dell’Arno.

Milena non sa che le difficoltà maggiori le sta in realtà incontrando un altro suo fratello, Marcello. Vive con la moglie, i suoceri e due figli piccoli a pochi chilometri da casa sua, in via Luna, una stretta strada incastonata tra via Gioberti e via Giotto. Lì, al di là della ferrovia, l’esondazione è arrivata prepotente. Il livello dell’acqua sale con la stessa rapidità con cui cresce la preoccupazione della famiglia che abita al primo piano. Un paio di scalini ancora è l’abitazione sarà allagata. Marcello non si sente più protetto a rimanere in casa, è deciso a mettere in sicurezza i suoi cari. Si agita, scatta da una parte all'altra, fiuta il pericolo. Tenta un gesto disperato: con un figlio sulle spalle e uno in braccio esce di casa, entra nel mare di acqua che lo circonda. Avanza lentamente deciso a raggiungere il cavalcavia di Piazza Alberti. L’acqua gli arriva al torace, l’impresa è ardua quanto irrealizzabile. È costretto a desistere, torna in casa ma non si perde d’animo. Il suo carattere mai domo, impulsivo e tenace individua una via alternativa per mettersi al sicuro. “Uscirono sulla terrazza che si affacciava sul retro della casa” prosegue ancora Milena incarnando la drammaticità emotiva di chi quella situazione l’ha vissuta in prima persona. “Da qui salirono sul confinante tetto di un’officina che sorgeva accanto alla casa. Marcello avanti, gli altri dietro. Voleva raggiungere la terrazza di un appartamento posto più in alto rispetto al loro. Servendosi di una scala a pioli creò un collegamento di fortuna, instabile e sospeso nel vuoto, tra il tetto dell’officina e la ringhiera della terrazza”. È l’unica via di uscita. Uno alla volta, salgono la scala, Marcello fa avanti e indietro con i figli in collo. Raggiungono così l’abitazione dove vive, da sola, una distinta signora di mezza età che tra stupore e cortesia, apre la porta di casa. O, per meglio dire, la portafinestra. Ha già dato ospitalità a un’altra famiglia in difficoltà. La sua casa diventa un piccolo centro di accoglienza per sette adulti e quattro bambini ai quali la padrona di casa, preoccupata per l'incolumità di ninnoli e ornamenti, rivolge un cortese invito a «toccare con gli occhi e guardare con le mani»

Non appena le acque si ritirano Firenze si risveglia in un mare di fango e detriti. Bisogna rimboccarsi le maniche per riportare alla normalità uno scenario apocalittico, si contano i danni fisici e morali. La famiglia di Milena si divide tra la casa e la bottega. Il negozio è stato completamente sommerso dall'acqua, gli arredi danneggiati, i prodotti dispersi o rovinati. “Fango e nafta aveva imbrattato le pareti fino al soffitto, il locale era stato devastato in tutto e per tutto. Gli sforzi di tanti anni spazzati via in poche ore. Iniziammo a cercare di salvare il salvabile, a spalare, raschiare, pulire e lavare. Lavorammo freneticamente per riaprire prima possibile l’attività. Sei caschi, poltroncine, un divanetto e mobili: tutto da buttare. Un grosso ordine di colori per capelli era arrivato la sera prima dell’alluvione. Fui costretta a gettarne l’intero contenuto perché l’acqua aveva staccato o reso illeggibili le etichette rendendo di fatto inutilizzabili i prodotti. Un dramma. Il Comune concesse agli alluvionati un indennizzo di 500.000 lire ma i danni ammontarono a molto di più, basti pensare che solo un casco all'epoca costava 150.000 lire”.
Di tutto il negozio si salvarono solo le fiale anticaduta per capelli e i bigodini che, sommersi da una coltre di melma, presero la via di casa per cercarne il pieno recupero. “Mi incaricai io di riportare alla luce quell'ammasso di materia e fango” interviene Gabriella, la figlia di Milena allora quindicenne. “Con i secchi andavo avanti e indietro da casa alla piscina Costoli dove prendevo l’acqua dalla vasca, che in quei giorni era l’unica fonte di approvvigionamento idrico disponibile. Lavai via tutto lo sporco. A distanza di cinquant'anni ho ancora vivo il ricordo degli odori fetidi lasciati in dono dalla piena. Quello nauseabondo di putrido, intenso vicino ai negozi di generi alimentari e alle carcasse di animali morti, e quello acre di nafta intriso l’aria, impregnato nei muri, negli oggetti e negli affetti”.





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sabato 5 novembre 2016

Arno fonte di prosperità, fonte di distruzione. La mostra all'Archivio di Stato a cinquantì'anni dall'alluvione

Nell'ambito delle manifestazioni promosse in occasione della ricorrenza del cinquantesimo anno dall'alluvione di Firenze di quel tragico 4 novembre 1966, di cui ho già parlato anche in questo post, si inserisce la mostra inaugurata domenica 9 ottobre presso l'Archivio di Stato di Firenze dal titolo "Arno: fonte di prosperità, fonte di distruzione. Storia del fiume e del territorio nelle carte d’archivio". Promossa dall'Archivio di Stato in collaborazione con la Soprintendenza, l'esposizione è allestita presso gli spaziosi locali al piano terra resi per l'occasione fruibili al pubblico. L'Archivio di Stato di Firenze, uno dei cento presenti su tutto il territorio nazionale, svolge funzioni di tutela e valorizzazione dei beni archivistici in esso conservati per un totale di oltre 75 chilometri di documenti. Un patrimonio inestimabile di carteggi, codici miniati, statuti, disegni, carte geografiche e diplomi che custodisce la storia di Firenze e della Toscana compresa tra l'VIII secolo e i giorni nostri.



Istituito con decreto del 30 settembre 1852 un Archivio centrale dello Stato con sede presso il piano terra e il primo piano degli Uffizi, inglobò una serie di archivi sparsi per la città che custodivano documenti dall'età comunale all'epoca lorenese. Con l'Unità d'Italia, in esso confluì tutta la documentazione non più utile dell'amministrazione locale che, con il passare degli anni, creò non pochi problemi legati alla mancanza di spazi adeguati alla crescente mole di carta oggetto di conservazione. 
Il 4 novembre 1966 l'Archivio fu investito dalla furia della piena dell'Arno che ne danneggiò gravemente il patrimonio documentario sommergendo sette chilometri di scaffali. Tale evento ripropose con forza l'esigenza di trovare una nuova sede per l'istituto che fu inaugurata 23 anni dopo, il 4 febbraio 1989, con il nuovo archivio in viale Giovine Italia progettato da Italo Gamberini. Una struttura trapezoidale, architettonicamente molto articolata sia all'esterno che all'interno dove la volumetria è suddivisa su più livelli. 


La mostra si suddivise in tre sezioni in cui sono esposti disegni, cartografie, documenti e opere d'arte. Le prime due sono dedicate al connubio città-fiume, da sempre indissolubilmente legate da un rapporto di vita-morte che ha visto l'Arno nei secoli come fonte di prosperità per Firenze alternata a terribile forza di distruzione e lutto. Dal 1100 ad oggi si contano 60 alluvioni che hanno scandito ritmicamente gli ultimi nove secoli della nostra storia di cui almeno nove si annoverano tra gli eventi particolarmente gravi. Il 4 novembre, data dell'ultima alluvione, risulta essere un giorno particolarmente nefasto che ha caratterizzato la storia di Firenze con altre due esondazioni nel 1333 e nel 1660. Il record di "giorno nero" spetta però al 6 novembre che registra addirittura quattro alluvioni, ma tutto il mese di novembre risulta essere stato funestamente colpito con sedici episodi trascritti negli annali. Pensando ai fiumi in secca e ai problemi di siccità che caratterizzano le estati su suolo italico, è singolare notare come nel corso del 1500 si siano verificate ben tre alluvioni nel mese di agosto. 


Ma come dicevo l'Arno è stato anche una formidabile via di comunicazione, un luogo di svago e mezzo di sostentamento. Attraversato da meraviglie architettoniche che è quasi riduttivo chiamare ponti, come Ponte Vecchio rappresentato in un'incisione acquarellata di metà 800 con tanto di progetto di copertura a vetri in stile galleria o il Ponte delle Grazie, di cui un modellino in legno riproduce le fattezze originarie con le celle di clausure erette in corrispondenza dei piloni poi demolite nel 1875. 



Tra XVI e XIX secolo le sponde e le acque del fiume hanno costituito un teatro naturale prediletto per spettacoli, feste e celebrazioni. Matrimoni dinastici, visite di sovrani stranieri e giochi scenografici avevano sempre come protagonista il fiume come testimoniato da un dipinto a olio su tela, di autore ignoto, raffigurante una movimentata festa in Arno. 


La terza sezione pone sotto la lente di ingrandimento i danni causati dall'ultima alluvione e il conseguente impulso che ne ebbe l'attività di restauro con la creazione nel 1968 di un laboratorio specializzato dell'Archivio di Stato che col passare degli anni si è affermato come uno dei più importanti a livello nazionale. 
I danni arrecati dalle acque limacciose dell'Arno sul materiale cartaceo sono visibili su alcuni esemplari in mostra ancora non sottoposti a restauro. Delicate operazioni di asciugatura, essiccazione e interfoliazione hanno permesso il recupero di gran parte del patrimonio violentato dall'alluvione grazie anche al fatto che gli inchiostri in uso nei secoli passati non erano solubili in acqua. Spesso irreparabili sono state invece le conseguenze dell'acqua sulle pergamene, rese blocchi informi per via dell'effetto adesivo causato dal deterioramento del collagene.



Lo sguardo spazia anche alle alluvioni che hanno flagellato la città nei secoli precedenti, rivissute attraverso alcune testimonianze contenute nelle carte di conventi e ospedali, relazioni istituzionali e testimonianze dirette. Tra queste spicca quella del Granduca Leopoldo II d'Asburgo Lorena che il 3 novembre 1844 si recò dalla Villa di Poggio a Caiano in città per rendersi conto in prima persona del dramma causato dal fiume nemico. Il Granduca si muove tra i quartieri descrivendo uno scenario in cui regnano "immensa mota", lezzo e "quartieri fatti inabitabili". L'inondazione del 1844 e quella successiva del 1864, nel periodo di Firenze capitale, furono gestite con una certa tempestività ed efficienza dalle autorità cittadine che in entrambi i casi riuscirono a contenere i danni arrecati dalla furia delle acque grazie ad un apparato di intervento capace di gestire l'emergenza. 


Dove: Archivio di Stato di Firenze, Viale della Giovine Italia 6 - Firenze
Quando: fino al 4 febbraio, da lunedì a venerdì con orario 9-17 dal lunedì al venerdì, sabato 9-13, chiuso domenica e festività.
Costo: ingresso libero



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mercoledì 26 ottobre 2016

50 anni dall'alluvione di Firenze. Fotografie e racconti in una mostra itinerante


"[...] un esempio meraviglioso, spinta dalla gioia di mostrarsi utile, di prestare la propria forza e il proprio entusiasmo per la salvezza di un bene comune. Onore ai beats, onore agli angeli del fango”. Queste parole con cui Giovanni Grazzini, giornalista fiorentino del Corriere della Sera, battezzò l'esercito di volontari di ogni età e di ogni parte d'Italia e del mondo che giunse a Firenze dopo quel tragico 4 novembre 1966 per contribuire a far rivivere la culla del Rinascimento. Espressione, "angeli del fango", da allora entrata a far parte del lessico comune per identificare non solo delle persone ma lo sforzo, il cuore e la ferrea volontà che unite alla tenacità tipica dei fiorentini sconfissero la marea di acqua e melma.

Nel cinquantesimo anniversario di quel tragico evento, in cui persero la vita 35 persone in tutta la provincia (numero forse contenuto per via della festività della giornata), sono state organizzate dal Comitato "2016 Progetto Firenze" una serie di commemorazioni lunghe un anno. Tra esse segnalo una mostra fotografica itinerante dal titolo "1966 l’Alluvione di Firenze", curata dai giornalisti Franco Mariani e Mattia Lattanzi, ospitata in varie sedi della città che ho avuto il piacere di visitare durante la tappa espositiva presso la biblioteca delle Oblate in via dell'Oriuolo. Una serie di pannelli, con foto inedite accurate descrizioni e testimonianze di chi quei momenti li ha vissuti in prima persona, fanno rivivere aspetti anche poco conosciuti della peggiore alluvione di Firenze.

Per ricordare la calamità naturale che sconvolse la città, nelle sue dinamiche e dimensioni, ma anche tutta quella serie di aspetti collaterali ma tutt'altro che secondari che ne derivarono. Innanzitutto la pericolosità e imprevedibilità dell'Arno, che come dimostra la storia ha ripetutamente allagato Firenze e non solo, la mancata messa in sicurezza a distanza di cinquanta anni del suo bacino idrico (è in corso un progetto per la tutela del territorio e la prevenzione del rischio idrogeologico) unita al peso delle responsabilità umane nelle cause del disastro e nel mancato allarme alla popolazione.

Poi l'incredibile catena di solidarietà, come già accennato, che coinvolse oltre sessanti Paesi e dimostrò la grande anima umanitaria capace di oltrepassare distanze geografiche, linguistiche, sociali e culturali nel momento del bisogno. Emblematico il caso degli oltre tremila giovani scout spontaneamente accorsi a Firenze uniti dalla voglia di rendersi utili a cui furono affidate le operazioni di distribuzioni viveri, farmaci e indumenti. Squadre di volenterosi, guidati dal coraggio, da smisurata generosità e da infaticabile abnegazione combatterono nel fango per giorni e giorni pur di ridare vita alla città isolata e dilaniata dalla catastrofe. I radioamatori con le loro stazioni mobili per quasi tre giorni rappresentarono l'unico mezzo per comunicare in città e con l'esterno, dettero voce alla disperazione che si respirava a Firenze e dintorni sostituendo le reti ufficiali di telecomunicazione andate irrimediabilmente distrutte dall'onda di fango. Idro Montanelli, sul Corriere della Sera, arrivò perfino a scrivere che l'autentica tragedia di Firenze, per chi osservava da fuori, era passata in secondo piano rispetto al risalto dato dai media agli sforzi dei soccorritori facendo sembrare che "[...] l'alluvione di soldati, pompe, autobotti, camionette, viveri, indumenti, medicinali, attrezzi, ministri e deputati, fosse più imponente di quella dell'Arno".

Encomiabile lo spirito dei fiorentini che emerge fin dalle prime ore successive allo straripamento delle acque. Afflitti, feriti negli affetti e nei propri beni, piegati dalla tragedia che si è abbattuta sulla loro amata città. Un popolo piegato ma non spezzato dalla forza della natura, dignitosamente aggrappato alla forza di volontà che gli è propria, a quell'orgoglio combattivo e talvolta burbero tipico di chi hai il privilegio di appartenere della città più bella del mondo. E per questo strenuamente e visceralmente legato alla propria urbe da sempre difesa contro tutti con le unghie e con i denti. Appena il mare fangoso inizia a ritirarsi i fiorentini si sono già rimboccati le maniche. Non c'è tempo per piangersi addosso, con mezzi di fortuna si cerca di ricostruire, salvare il salvabile e aiutare chi è più in difficoltà. Basti pensare alla famiglia di Michele Ferlito, che nel 1966 ricopriva al carica di direttore degli Istituti penitenziari di Firenze, messa in salvo dal loro appartamento confinante con il carcere di Borgo la Croce grazie all'intervento dei detenuti.

Straordinarie le parole con cui il giornalista del quotidiano "La Nazione", Franco Nencini, il giorno 6 novembre immortala le sue impressioni dalla città. "La gente cammina per le strade infangata, insonne, distrutta" si legge nel suo articolo. "C'è in questo popolo che sana le proprie disperate ferite e cerca di aiutare gli altri, di informarsi della loro sorte, una dignità antica [...] Le ventiquattro ore peggiori della nostra vita sono passate. Davanti a noi c'è ancora tanto da scoprire, c'è bisogno per tutti di tanto coraggio. Per ricostruire, per ricominciare. Alle spalle abbiamo un deserto di acqua e fango".

Le cronache descrivono uno scenario apocalittico. Più di quattordicimila case sono danneggiate o distrutte, il tessuto economico in ginocchio con quasi diciannovemila tra aziende, esercizi e botteghe artigiane alluvionate, il 70% di alberghi e l'80% di ristoranti devastati dalla furia dell'Arno. Migliaia le persone che hanno perso il lavoro, senza contare chi ha perso familiari e proprietà. Il flagello dell'inondazione spazza via tutto fuorché lo spirito fiorentino che, a distanza poche ore, esorcizza il difficile momento con amara ironia: "bagni di fango", "chiuso per nervoso" e "oggi umido" (appeso sul bandone di un noto ristorante) sono alcuni dei cartelli che compaiono in città.

Il patrimonio artistico di Firenze subì danni incalcolabili e ancora oggi si contano centinaia di opere in attesa di restauro. Conseguenza fu il grande impulso che investì il settore del restauro e recupero delle opere d'arte con lo sviluppo di collaborazioni internazionali e l'ascesa dell'Opificio delle Pietre Dure a centro di eccellenza e avanguardia a livello europeo. Come è facile immaginare gravemente danneggiato risultò il patrimonio librario conservato nelle varie biblioteche, musei e istituzioni della città. Migliaia di libri, manoscritti e codici preziosi distrutti dalla miscela di acqua fango e nafta. Nell'opera di recupero e restauro del materiale cartaceo si distinsero due realtà ecclesiastiche, il laboratorio di restauro scientifico del libro in Vaticano e l'Antica abbazia di San Nilo a Grottaferrata vicino Roma, sede di un antico centro di conservazione e restauro libri. Un lavoro certosino di lavaggio, trattamento, asciugatura e rilegatura che ha riportato in vita oltre mille libri dal valore inestimabile tra i quali il catalogo Magliabechiano e quello Palatino investiti dalla piena nella Biblioteca Nazionale di Firenze.


Ingenti danni subì anche la sinagoga ebraica fiorentina violata al suo interno dalle acque limacciose del fiume che travolsero arredi, paramenti e reliquie. L'acqua, che in via Farini raggiunse l'altezza di quattro metri, sommerse la lipide che ricorda i nomi dei 248 ebrei fiorentini uccisi durante la Seconda Guerra mondiale. Antiche Bibbie, rarissime pergamene e testi sacri conservati nel Tempio finirono sotto una spessa coltre di fango al pari dei volumi, alcuni risalenti al XV–XVI secolo, conservati nell'annessa biblioteca. Alcune centinaia di questi libri tornano a Firenze in occasione della ricorrenza dell'alluvione, oggetto di una mostra che valorizza il loro recupero dopo un'assenza di dieci lustri dal quel fatidico 4 novembre 1966.



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venerdì 14 ottobre 2016

Dai Medici ai Savoia. Amori, intrighi e splendori a Villa Ambra

A distanza di un anno eccomi di nuovo a parlare della splendida Villa Medicea di Poggio a Caiano.  Il mio precedente post, il secondo in ordine di tempo sul mio blog che vedeva la luce esattamente 365 giorni fa, descriveva il viaggio nelle cucine “segrete” della villa aperte eccezionalmente dopo un lungo periodo di restauro. Questa volta è il turno gli appartamenti del piano terra e piano nobile, il cuore di questa villa che costituisce insieme ad altre 11 il grandioso sistema di residenze medicee disseminate nella Toscana settentrionale. Sorte tra il XV e il XVII secolo, le ville medicee hanno innovato il concetto di palazzo principesco dell’epoca creando una nuova tipologia presa a modello dalle corti di tutta Europa.





Commissionata da Lorenzo il Magnifico a Giuliano da Sangallo per farne una delle residenze estive della famiglia, l’edificio si basa su proporzioni e simmetria che donano una ricercata armonia architettonica. Due scaloni curvi, aggiunta ottocentesca, regalano movimento alla facciata che si apre sull'esterno con un porticato nella parte più bassa e con un loggiato sormontato da un timpano al livello superiore.
I locali del pianterreno sono annunciati dalla sala d’ingresso, con soffitto a stucchi a cui segue il “teatro delle commedie” fatto realizzare da Marguerite-Louise d’Orleans, moglie di Cosimo III, grande amante insieme al figlio Ferdinando delle rappresentazioni teatrali alle quali partecipava talvolta anche come attrice. Il palco come lo vediamo oggi è frutto degli interventi in stile neoclassico voluti da Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone e Granduchessa di Toscana dal 1809, che fece della villa una delle sue residenze preferite. Dal teatro si accede alla sala dei biliardi, ambiente dedicato al gioco e allo svago dai Savoia che lo destinarono a questo uso nel corso dell’Ottocento affidando la decorazione del soffitto al pittore torinese Ferri che realizzò un fitto pergolato popolato da putti e amorini.



  
I tre ambienti dell’appartamento di Bianca Cappello completano il piano: l’anticamera con tre dipinti di Paolo Veronese e il Cristo deposto di Giorgio Vasari (pala d’altare della cappella privata della villa), la stanza del Camino che deriva il nome dal camino cinquecentesco in marmo bianco plasticamente ornato con due telamoni attribuiti alla scuola di Buontalenti e la scala pensile in pietra serena che collegava la stanza con l’appartamento di Francesco I. Tormentata, agognata e dal finale tragico la storia di Bianca e Francesco ricorda quella di Romeo e Giulietta in salsa fiorentina. La nobildonna veneziana e il Granduca, entrambi sposati, furono dapprima amanti tra lo scandalo generale e l’osteggiamento della famiglia medicea; poi, dopo aver coronato il sogno di unirsi in matrimonio, abitarono per circa otto anni le stanze della villa di Poggio a Caiano fino alla loro tragica quanto misteriosa morte, avvenuta a distanza di un giorno uno dall'altra.


Passioni, intrighi e matrimoni hanno caratterizzato nei secoli la storia della villa che Lorenzo il Magnifico, con una sorta di presagio, aveva chiamato Ambra dal nome di una ninfa protagonista di una vicenda amorosa accidentata.
  

Uno scalone conduce al piano nobile della villa, diviso simmetricamente in due ali unite dal Salone di Leone X l’ambiente più fastoso e celebrativo della casata medicea. Completato nel 1513 da Leone X, già eletto al soglio pontificio, presenta un soffitto a volta  decorato a stucco con emblemi medicei e un ciclo pittorico di affreschi sulle pareti, opera dei maestri Andrea del Sarto, Pontormo, Allori e Franciabigio, che esalta la dinastia granducale attraverso il richiamo a episodi storici e mitologici. Profondamente rimaneggiata nel corso dell’Ottocento negli arredi e negli apparati decorativi, la Sala dei pranzi conserva l’affresco sulla volta con l’apoteosi di Cosimo il Vecchio compiuto sul finire del 600 dal pittore fiorentino Gabbiani.





Sulla destra della Sala dei pranzi si sviluppano le quattro stanze che compongono l’appartamento di Vittorio Emanuele II che, durante il periodo di Firenze capitale, soggiornò spesso nella villa insieme alla moglie lasciando la sua impronta con alcuni rifacimenti sia all'interno che all'esterno. L’appartamento, arredato con mobili provenienti da varie residenze sabaude e con lo stemma della casata in bella mostra, si compone di quattro ambienti (Sala da ricevere, camera da letto, guardaroba e studio) gli stessi che, specularmente rispetto alla Sala dei Pranzi costituiscono l’appartamento della contessa di Mirafiori, la moglie di Vittorio Emanuele II conosciuta come “la bella Rosina”. Queste stanze erano appartenute in precedenza a Elisa Baciocchi a cui si devono l’impianto neoclassico delle decorazioni parietali e il bagno con vasca in marmo grigio. 



Completano il Piano nobile dei salotti e la Sala del Fregio, così chiamata perché accoglie il fregio in terracotta invetriata proveniente dall'architrave del timpano che sormonta il loggiato della facciata (quello attualmente visibile all'esterno è una copia degli anni 80 realizzata dalla Richard-Ginori). Staccato nel 1967 per motivi di conservazione, il fregio fu commissionato da Lorenzo il Magnifico ad una équipe di artisti che si suppone comprendesse Giuliano da Sangallo, Andrea Sansovino e Bertoldo di Giovanni. La trama iconografica con scene mitologiche e allegoriche, definita con il sapiente contributo del letterato Agnolo Poliziano, si ispira al mondo classico e all'antichità come fonte di illuminazione e modello di condotta per il presente e futuro.  


Dopo la visita degli interni, i giardini della villa offrono un piacevole occasione per una camminata tra la limonaia e la vasca centrale circondata da vialetti, piante di agrumi e alberi secolari. 
Peccato per le impalcature che ormai da qualche anno stazionano lungo il porticato che circonda la villa sul lato destro. Moniti metallici che ricordano la necessità di un intervento di restauro che tarda ad arrivare, lo scorrere del tempo in questi casi si rivela spesso tiranno e la speranza è che anche questa spazio possa tornare presto a risplendere come merita.






Dove: Villa Medicea, Piazza de Medici - Poggio a Caiano (PO)
Quando: tutti i giorni eccetto secondo e terzo lunedì del mese. Parco e giardino: ingresso libero dalle ore 8.15; appartamenti monumentali: ingresso ogni ora dalle ore 8.30 con visita accompagnata; museo della natura morta: ingresso ogni ora dalle ore 9.00 previo appuntamento. Orari di chiusura variabili a seconda del mese dell'anno.
Costo: gratuito


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venerdì 30 settembre 2016

Ai Weiwei. Libero. La retrospettiva dell'artista a Firenze

Uno scandalo, uno scempio artistico, un oltraggio a Firenze. No un grido di denuncia, un veicolo di sensibilizzazione delle coscienze. Mentre infuria il dibattito e Firenze si divide, come da sempre succede nella patria della polemica, tra contrari e favorevoli, tra guelfi e ghibellini a Palazzo Strozzi si inaugura la prima grande retrospettiva italiana dedicata ad Ai Weiwei uno degli artisti contemporanei più celebri e controversi. Palazzo Strozzi diventa per la prima volta uno spazio espositivo globale: opere storiche e creazioni recenti dell’artista cinese coinvolgono non solo le sale del Piano Nobile e della Strozzina ma anche il cortile e due facciate dell’edificio. È proprio l’installazione pensata e realizzata per l’esterno di Palazzo Strozzi che ha fatto più discutere: ventidue gommoni di salvataggio arancioni incorniciano (da cui il nome “Reframe”) altrettante finestre del Piano Nobile lungo via Strozzi e Piazza Strozzi. Un energico contrasto cromatico e stilistico, un pugno sul volto del palazzo rinascimentale che richiama l’opinione pubblica sulla tragedia dei profughi che così da vicino coinvolge tutta l’Europa e l’Italia in primis. 


I gommoni, aggrappati al bugnato dell’edificio allo stesso modo in cui i profughi si afferrano alle precarie imbarcazioni in balia del mare, impattano con forza sul visitatore. L’impegno dell’artista sul tema dell’immigrazione e dei viaggi della speranza, spesso trasformati in viaggi della morte, ha permeato tutta la produzione di Ai Weiwei dell’ultimo anno. Dall'esperienza (documentata) in prima persona nel campo rifugiati di Moria nell'isola di Lesbo, un disumano ammasso di disperati a trenta chilometri dalle coste turche, alle installazioni di giubbotti di salvataggio e performance con coperte termiche a Berlino, alle azioni di protesta contro le politiche di confisca del governo danese al dramma dei palestinesi in fuga filmati nel passaggio del valico di Rafah.
Refraction” è il titolo della gigantesca ala metallica che conquista lo spazio del cortile. Realizzata con pannelli solari tibetani incarna il dualismo tra libertà e prigionia. Simbolo di libertà privata dalle sua essenza, impossibilitata a spiccare il volo e costretta al suolo dal suo peso di oltre cinquanta tonnellate, diviene espressione di privazione e reclusione. 


Concetti verso cui l’artista si mostra particolarmente sensibile divenendo un simbolo della lotta contro la negazione delle libertà personali con cui fin da bambino ha dovuto fare i conti. Ai Weiwei cresce fino all'età di 19 anni in un campo di rieducazione militare prima e in un ambiente sotterraneo nel deserto del Gobi poi, dove il padre era stato esiliato e condannato a lavori forzati dopo essere stato definito dal Partito Comunista Cinese “triplo criminale”. Solo alla morte dei Mao Zedong nel 1976 Ai Weiwei può tornare a Pechino, sua città natale. Ma la difficile convivenza con la madrepatria non è certo finita. Nell'aprile 2011, mentre si trova all'aeroporto internazionale di Pechino, viene arrestato e imprigionato per 81 giorni in un luogo segreto. Per i quattro anni successivi gli sarà impedito di lasciare Pechino, parlare con la stampa e pubblicare articoli. Una privazione di libertà personali che paradossalmente renderà ancora più conosciuto e famoso l’artista che proprio nel 2011 viene definito l’artista più influente al mondo. Da questo episodio si intensificano le  opere che hanno come soggetto la detenzione e la libertà di espressione. Non è un caso che il titolo della mostra sia “Ai Weiwei. Libero”. 



Le sale del Piano Nobile e della Strozzina sono un concentrato eterogeneo di lavori realizzati a partire dagli anni 80 quando l’artista frequenta a New York la Parsons School of Design, ben presto abbandonata a favore di gallerie e musei dove entra in contatto con le opere di quelli che diventeranno i suoi riferimenti artistici: Marcel Duchamp e Andy Warhol. La mostra raccoglie anche le produzioni più recenti, dai profondi connotati socio-politici grazie alle quali Ai Weiwei si distingue come una delle personalità più provocatorie e discusse in ambito internazionale. Installazioni monumentali, fotografie, video, sculture, assemblaggi di materiali: l’eclettismo artistico di Ai Weiwei non conosce confini, qualunque oggetto diventa una fonte creativa per il suo simbolismo di denuncia. Perfino i mattoncini colorati del Lego da ingenuo passatempo ludico divengono strumento di rappresentazione di dissidenti politici. 


Nella sala “Rinascimento” Ai Weiwei ritrae i busti di quattro personalità, Dante Galilei Strozzi e Savonarola, legate alla storia di Firenze e accomunate da episodi di privazione della libertà. 
Anche la serie di oggetti realizzati in materiali preziosi sono un manifesto contro l’oppressione e l’abuso dei diritti umani. Le grucce in cristallo e legno huali, usate dall'artista nella sua cella per appendere i vestiti lavati, le manette in giada con cui è stato ammanettato per più di cinquanta volte durante gli altrettanti interrogatori che hanno scandito la sua prigionia.



Dissacranti ma prive della vena geniale che permea altre opere, la serie di quaranta fotografie “Study of perspective” che ritraggono alcuni dei monumenti/luoghi più famosi al mondo con il dito medio alzato dell’artista in primo piano. Palazzo Strozzi compreso, ovviamente. 




Continui i richiami alla Cina e al rapporto ambiguo che lo lega al paese d’origine, sospeso tra senso di appartenenza e lotta contro la repressione della libertà di espressione a cui reagisce con atti di disobbedienza culturale a difesa dei diritti umani (nel 2015 è stato insignito da Amnesty International del premio di Ambassador of Conscience). Ai Weiwei si muove in bilico tra passato e presente, gioca con la produzione ceramica sull'ambiguità tra moderno e antico amalgamando tradizioni artistiche, fondamenti culturali-politici e avvenimenti. Tra questi ultimi particolare risalto assume il terribile terremoto che il 12 maggio 2008  scuote la regione del Sichuan mietendo 70000 vittime, tra le quali circa 5000 sono studenti rimasti sotto le macerie nel crollo delle scuole. 




Ai Weiwei, dopo aver visitato le zone colpite dal sisma, inizia una lunga battaglia contro la mancanza di sicurezza degli edifici e il tentativo del governo cinese di offuscare verità e notizie sul tragico evento. La pubblicazione sul suo blog, poi oscurato dalle autorità cinesi, dei nomi delle migliaia di bambini deceduti come atto di denuncia sarà causa di interrogatori e pestaggi. La sua genialità artistica si esprime sul tema con “Snake Bag”, un gigantesco serpente realizzato dall'unione sinuosa di 360 zaini, e con le installazioni lignee di “Rebar and case” allusioni a bare dal profilo deforme come quello del territorio sconvolto dal terremoto.


Ai Weiwei si stima o si critica. La provocazione insita nella sua vena artistica e l’anima dissidente che lo contraddistingue non consentono vie di mezzo. La mostra (e la produzione di Ai Weiwei in generale) va inquadrata in una doppia cornice: il contesto globale contemporaneo, fonte di ispirazione e avversione, e la biografia dell’artista che fornisce una chiave di lettura intrinseca. Questo non necessariamente aiuta ad apprezzare, ma almeno serve a comprendere l’uomo-artista Ai Weiwei. Poliedrico. Libero. 



Dove: Palazzo Strozzi, Piazza Strozzi - Firenze
Quando: fino al 22 gennaio 2017 tutti i giorni inclusi i festivi 10.00-20.00, Giovedì 10.00-23.00
Costo: biglietto intero €13, ridotto €10,50, promozione 2 biglietti al prezzo di uno con biglietti e abbonamenti Trenitalia, ridotto ragazzi €5


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