lunedì 28 dicembre 2015

Nel regno degli Antinori: visita delle Cantine nel Chianti Classico

Siamo nel cuore del Chianti, in località Bargino, un territorio conosciuto in tutto il mondo per i suoi incanti naturalistici, per le antiche tradizioni ed i suoi sapori genuini. Qui, a cavallo tra le provincie di Firenze e Siena, nasce e trionfa quella tradizione vinicola che può fregiarsi dell'appellativo “Classico” che ne riconosce la peculiarità territoriale e la primogenitura della produzione. E' il regno del Sangiovese e di un rigido disciplinare che, a tutela del marchio DOCG Chianti Classico, circoscrive alla suddetta zona il luogo di provenienza e di lavorazione delle uve.


Dalla via Cassia, porta di accesso a questo “nuovo mondo” Antinori, non si ha la percezione di cosa ci attende. Solo dopo aver attraversato il varco di accesso e aver raggiunto il parcheggio dedicato agli ospiti, si inizia ad intravedere, tra scale elicoidali ed enormi vetrate, la grandezza dell'opera. Grandezza riposta non solo nella complessità ed imponenza della struttura, ipogeo che si articola verticalmente per oltre venti metri, ma soprattutto nella perfetta integrazione con l'ambiente che la circonda, nell'uso sapiente dei materiali che la compongono e nella innovativa concezione che ne sta alla base. 





Sebbene l'impianto realizzativo abbia richiesto una profonda incisione nel ventre della collina che la ospita, questa architettura impatta in maniera minima sul territorio circostante e diventa un luogo armonico “in cui il passato sa aprirsi al futuro, con quel rispetto che, solo, può coniugare l'esperienza all'innovazione”. L'architetto Casamonti è riuscito abilmente a concretizzare, in sette anni di lavori, lo spirito che il Marchese Antinori aveva posto come fondamento del progetto: essere “monumentale e invisibile allo stesso tempo, un ossimoro e quindi una sfida” di portata internazionale.


L'impiego di pochi materiali - il cemento pigmentato, l'acciaio corten e il cotto dell'Impruneta - si sposa con la ricercatezza di un equilibrio cromatico tra le tinte calde dell'ocra, ruggine e mattone per un richiamo costante agli elementi naturali della terra, della campagna e del legno delle barriqueNiente è lasciato al caso in questo scrigno di storia, cultura e passioni inaugurato nell'ottobre del 2012 per un ritorno nel luogo di origine della famiglia Antinori, da dove ebbe origine quella tradizione che ormai da 630 anni li vede protagonisti nella ricerca dell'eccellenza nell'ambito della produzione vinicola.


La visita “barriccaia” è un percorso organizzato e guidato da un membro dello staff dell'azienda che nell'arco di un'ora e mezzo conduce alla scoperta della genesi del vino, dal grappolo alla bottiglia attraverso le singole fasi di lavorazione e i distinti luoghi che ne fanno da sfondo. Dalla diraspatura dei grappoli e selezione degli acini, dove il lavoro umano si unisce sapientemente a quello meccanico, alla vinificazione che sfruttando lo sviluppo in verticale della cantina avviene per gravità (senza l'utilizzo di pompe) per consentire l'integrità delle proprietà organolettiche dell'uva, passando per la fermentazione del mosto negli enormi tini di acciaio e l'affinamento in botti o barrique sotto le sinuose volte realizzate con mattoni incastrati senza l'uso di malte per favorire un'areazione interna del tutto naturale e costante, per finire con l'imbottigliamento e l'etichettatura che, ogni anno, interessa circa due milioni e mezzo di bottiglie.




Un'esperienza sensoriale a tutto tondo che sollecita non solo la vista l'udito ed il tatto ma anche l'olfatto, con i diversi aromi che permeano gli ambienti, ed il gusto con l'assaggio guidato di tre vini al termine della visita. La degustazione può proseguire nella “Bottega dei sapori” dove è possibile apprezzare un'ampia selezione dei vini più rappresentativi della produzione Antinori. Completano la struttura l'attiguo Auditorium, dove un cortometraggio racconta la Famiglia Antinori, uno spazio espositivo dove sono conservate le collezioni della famiglia e, sulla terrazza panoramica con affaccio sui colli circostanti, il ristorante “Rinuccio 1180”.






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sabato 19 dicembre 2015

Il Principe dei sogni. L’arte del Rinascimento negli arazzi di casa Medici

Dopo 133 anni tornano nella loro sede originaria i venti arazzi raffiguranti le storie di Giuseppe Ebreo, pensati e realizzati per volere di Cosimo I de’ Medici per la sala dei Duecento in Palazzo Vecchio.
Tra il 1545 e il 1553 furono commissionati i disegni preparatori ad alcuni degli artisti che lavoravano alla corte medicea, Jacopo Pontormo, l’allievo Agnolo Bronzino e Francesco Salviati. I primi due, a cui si devono rispettivamente 3 e 16 disegni, sono tra i principali esponenti di quel manierismo fiorentino che ha nel Pontormo la sua espressione più spregiudicata, tormentata e a tratti eccessiva e nel Bronzino una versione più raffinata ed elegante. Un cartone preparatorio fu opera invece di Francesco Salviati, pittore anch'esso della corrente manierista particolarmente influenzato dallo stile di Raffaello.


Sulla base di questi disegni preparatori gli arazzi furono tessuti nella manifattura granducale creata nel 1545 dallo stesso Cosimo per rendersi indipendente, in tutto il ciclo produttivo, dalle altre officine italiane ed europee e poter competere in eccellenza con le manifatture d’Oltralpe, a quel tempo considerate le migliori.
A tale scopo il duca “arruolò” per la sua Arazzeria due maestri arazzieri fiamminghi, Jan Rost e Nicolas Karcher, che impiegarono per la tessitura della trama fili di seta, d’oro e d’argento mentre per l’ordito fili di colore neutro. La raffinatezza dei materiali impiegati e l’abilità artistica che si cela dietro la loro esecuzione fanno degli arazzi una delle più pregevoli testimonianze dell’arte rinascimentale e dell’arazzeria europea. D’altro canto la realizzazione di tali arazzi si inserisce in un sontuoso programma di ammodernamento e abbellimento a cui Cosimo I sottopose il “Palazzo dei Priori” per renderlo degna dimora di famiglia e sede del proprio governo.


I venti arazzi furono pensati per abbellire in occasioni speciali la Sala dei Duecento, una grande salone rettangolare situato nell'ala più antica di Palazzo Vecchio, originariamente destinata ad accogliere le riunioni del consiglio cittadino e per questo detta Sala del Popolo o del Comune. L’attuale nome si deve ad Alessandro de’ Medici che riformò l’assemblea popolare portando a duecento il numero dei suoi membri (il Consiglio de’ Dugento); Cosimo I, appena divenuto duca, svuotò della maggior parte del potere decisionale fino ad allora attribuito al Consiglio e concepì, per quel luogo simbolo un tempo di un governo democratico e popolare, un apparato ornamentale che allegoricamente celebrasse le sue qualità di detentore del potere assoluto.
Tutta la narrazione decorativa è incentrata sulle vicende del patriarca Giuseppe Ebreo, penultimo dei dodici figli di Giacobbe, così come illustrate nel libro della Genesi. Odiato dai fratelli per essere il prediletto dal padre e per la sua dote di interpretare i sogni, viene venduto a dei mercanti egizi. Una volta giunto in Egitto viene imprigionato e, liberato grazie alle sua arte divinatoria, diviene consigliere del Faraone. Trovatosi nuovamente al cospetto dei fratelli con un grande gesto di clemenza li perdona, invitandoli a stabilirsi in Egitto.

La vendita di Giuseppe
Giuseppe e il faraone
La narrazione di questi eventi biblici contiene un chiaro messaggio di natura politica che mira a stabilire uno stretto parallelismo tra la figura di Giuseppe e quella della casata medicea. Nonostante le avversità che costellano la sua vita, Giuseppe non si piega alla cattiva sorte ma, grazie alle sue grandi doti intellettuali ed umane, intraprende una brillante carriera politica raggiungendo posizioni di grande prestigio. Allo stesso modo i Medici, dopo essere stati cacciati dai propri concittadini, sono riusciti a riconquistare il potere dimostrando magnanimità e abilità di buon governo.



Con i loro sei metri di altezza e gli oltre quattrocento metri quadrati di tessuto, gli arazzi coprono in modo organico e completo le pareti della sala dei Duecento. Gli esemplari appesi nei pressi delle due porte di ingresso alla sala presentano una sagomatura che ne segue il profilo in modo da lasciare libero l’accesso, mentre rimanevano coperte dagli arazzi le finestre presenti sui lati nord e ovest dell’ambiente. La visione d’insieme che se ne consegue è assai d’impatto. Uno scenografico intreccio di figure è la costante che accomuna le singole rappresentazioni della storia di Giuseppe: corpi che si ammassano spesso l’uno accanto all'altro, linee sinuose che si intrecciano e pose dinamiche che rivelano una particolare attenzione per l’anatomia umana. Sono immagini cariche di forza in cui spiccano panneggi di colore rosso e blu. Al centro della sala quattro tavoli interattivi touch-screen rendono la visita un’esperienza multimediale fornendo schede dettagliate di ogni singolo arazzo e informazioni di carattere generale sulla loro storia e sul contesto che li ospita.


E’ proprio la storia travagliata che lo caratterizza un altro degli aspetti che rende ancora più unico questo ciclo cinquecentesco di arazzi. Dopo essere stato esposto per più di un secolo nella Sala dei Duecento, fu conservato nei depositi fino al 1865 quando Firenze divenne capitale d’Italia. Vittorio Emanuele II smembrò il complesso di arazzi trasferendo dieci di essi a Palazzo Pitti, divenuto nel frattempo la sede della corte sabauda. Con il trasferimento della capitale a Roma, gli arazzi seguirono il re e trovarono una collocazione definitiva nel Palazzo del Quirinale dove si sono conservati fino ai giorni attuali.
Le alterne vicende di questi arazzi si intrecciano quindi profondamente con gli avvenimenti storici dell’Italia e la loro riunificazione nella sede originaria rappresenta un evento culturale di assoluto valore, impregnato di una rilevante valenza simbolica e storica.
 
Giuseppe e Giacobbe

Gli arazzi rimasti a Firenze, dopo un periodo transitorio in cui furono esposti agli Uffizi, tornarono nel 1872 nella Sala dei Duecento a Palazzo Vecchio dove rimasero fino al 1983, quando per il loro avanzato stato di degrado furono rimossi dalle pareti e avviati a un lungo e complesso intervento di restauro durato fino al 2009. Grazie al sostegno finanziario della Cassa di Risparmio di Firenze, il lavoro fu affidato all'Opificio delle Pietre Dure di Firenze che allestì per l’occasione il Laboratorio di restauro degli arazzi direttamente all'interno di Palazzo Vecchio, nella Sala delle bandiere, per evitare di spostare i preziosi manufatti dalla loro sede naturale. Nel 1995 l’Opificio fu incaricato di intraprendere anche un delicato percorso conservativo sui dieci arazzi “romani”, conclusosi nel 2012. Anche in questo caso fu predisposto un laboratorio di restauro all'interno del Quirinale. Trenta anni di lavori, condotti su fragili tessuti logorati dal tempo e da infelici operazioni di restauro eseguite negli anni ’70, hanno costituito uno dei più importanti progetti conservativi mai attuati a livello mondiale per la portata dell’intervento e per le tecniche innovative messe a punto per l’occasione.

La mostra, dal titolo “Il Principe dei sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bronzino”, prima di Firenze ha fatto tappa a Roma al Palazzo del Quirinale, a Milano a Palazzo Reale in occasione di Expo2015.
Promossa dalla Presidenza della Repubblica Italiana, dal Comune di Firenze e dal Comune di Milano in collaborazione con il Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Expo 2015 e la Fondazione Bracco, è stata realizzata grazie al contributo economico del main sponsor Gucci.

Dove: Sala dei Duecento, Palazzo Vecchio – Piazza della Signoria Firenze
Quando: fino al 15 febbraio 2016 tutti i giorni escluso il giovedì con orario 9-19; il giovedì 9-14
Costo: biglietto Mostra: euro 2,00, biglietto Museo+Mostra: intero euro 12,00 – ridotto euro 10,00. Possessori biglietto treni FRECCE e Carta FRECCIA con destinazione Firenze (data emissione antecedente max 5gg data visita) 2 biglietti al costo di 1

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domenica 13 dicembre 2015

Escape Room. Quando il videogioco diventa realtà

Rinchiusi in una stanza, senza via di uscita, dalla quale è possibile “evadere” solo risolvendo enigmi e scoprendo i giusti indizi. Una corsa inesorabile contro il tempo, al massimo 60 minuti. Non è la trama di un film horror in uscita nelle sale cinematografiche ma un nuovo gioco di squadra che si sta diffondendo sempre di più in Europa, dopo aver conquistato Asia e America.

L’idea di questo gioco nasce nel 2008 in Giappone, a Kyoto per la precisione, traendo ispirazione da un genere di videogiochi in cui il giocatore è chiuso in una stanza e deve esplorare l’ambiente per trovare la via di fuga. Questa trasposizione nella realtà di una dinamica già sperimentata nei video game incontra un crescente successo di pubblico, diffondendosi nel 2011 a Singapore e l’anno seguente negli Stati Uniti. Nel 2015 si contano oltre 2800 escape rooms sparse in tutto il mondo.




Un gioco di strategia avvincente in cui i partecipanti, che possono variare da 2 a 8, devono mettere in campo tutto il loro intuito, abilità e capacità logiche per scovare i segreti che si celano nella stanza e riuscire a scappare prima che il tempo a disposizione si esaurisca.

Si può scegliere tra diverse stanze tematiche in cui calarsi nelle vesti di un prigioniero per una fuga da una prigione o da un manicomio, di un militare per una missione in un bunker, o di un ladro per una rapina in banca. Anche se lo scenario di fondo cambia, tutte le stanze sono accomunate dalla presenza di indizi, oggetti e misteriosi lucchetti che rendono lo scenario avvincente e stimolano lo coesione di squadra. Divertimento e fantasia quindi ma anche spirito di collaborazione e osservazione. Caratteristiche quest’ultime che hanno reso la escape room un ambiente consono alle attività formative di team building aziendale. I più moderni Responsabili Risorse Umane, osservando le dinamiche del gioco dalla cabina di regia della stanza, possono valutare i protagonisti in termini di capacità di problem solving, gestione del tempo, strategie di pianificazione e comunicazione e attitudine al lavoro di gruppo.


Presenti in varie regioni d’Italia, le escape rooms sono sbarcate ormai da qualche mese anche a Firenze. Ad oggi si contano tre diverse location: Freeing, Lost Space e Fox in a box.

Freeing si trova nella zona del Centro commerciale “I Gigli” a Campi Bisenzio (FI) ed è aperto sette giorni su sette. Offre cinque diverse stanze tematiche in possono mettersi alla prova per un tempo massimo di 45 minuti gruppi fino a otto persone.
Lost Space ha invece a disposizione tre stanze in cui si ha a che fare con la scomparsa di un agente federale americano, con una zona militare vietata ai turisti e con la ricerca di Venere. Il tempo a disposizione delle squadre (massimo 6 componenti) è di 60 minuti. Aperto dal lunedì alla domenica è ubicato in Via San Zanobi, nel centro di Firenze.
Situato sempre nel centro cittadino, in via Ventisette Aprile, è Fox in a box: due stanze, 60 minuti di tempo e fino a 5 partecipanti per divertenti attività ludico-ricreative o esperienze formative aziendali.



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giovedì 10 dicembre 2015

Calici di stelle ad Arcetri

Unire i piaceri di una triplice degustazione di vino all'inarrivabile fascino delle stelle. Questo è lo scopo di una serata organizzata presso l’osservatorio astrofisico di Arcetri dall'associazione di promozione sociale “Il Santuccio”, una vivace realtà fiorentina che da una quindicina di anni si adopera per valorizzare il mondo enologico e il buon cibo toscano e per diffondere la cultura del vivere bene. Incuriosito dall'insolito binomio enologia-astronomia che mi offre la possibilità di visitare l’osservatorio sorseggiando del buon vino in compagnia, mi “arrampico” sulle colline di Firenze con il mio set di bicchiere da degustazione. E’ una fredda serata di Novembre e la città dal basso abbaglia con le sue bianche luci.


Da una piccola porta in ferro battuto entriamo in uno dei poli di eccellenza a livello internazionale nell'ambito della ricerca scientifica, sia per quanto concerne lo studio del sistema solare e delle galassie sia in materia di sviluppo delle tecnologie astronomiche più avanzate. Il Prof. Paolo Tozzi è la nostra guida attraverso la storia dell’Osservatorio la cui inaugurazione risale al lontano 1872 quando, la posizione collinare alle porte della città, consentiva accurate osservazioni della volta celeste. L’astronomo che scruta l’infinito con il telescopio è ormai una visione romantica del passato, le luci della urbanizzazione hanno reso ormai impossibile l’osservazione diretta del cielo ad eccezione di pochi luoghi nelle aree più remote del pianeta. La maggior parte delle ricerche vengono condotte sui dati e le immagini trasmesse informaticamente dai satelliti e telescopi.


La riproduzione in scala del nostro sistema solare accompagna nel percorso attraverso il giardino in direzione del padiglione con la grande cupola in legno meccanizzata e con l’aula utilizzata a scopo didattico per la divulgazione della conoscenza del mondo astronomico. La cupola ospita lo storico telescopio “Amici”, dal nome dell’ottico modenese nonché professore di Astronomia che lo progettò. Le prime osservazioni documentate con questo telescopio risalgono al 1854 e furono rivolte principalmente allo studio di comete ed asteroidi. Per un attimo con la fantasia riavvolgo il nastro del tempo fino alla metà degli anni 40 e immagino, accanto a questo strumento, una giovane studentessa universitaria dall'aspetto bonario e dal forte accento fiorentino: Margherita Hack. Proprio qui infatti “l’amica delle stelle” condusse i suoi studi sulle Cefeidi, oggetto della tesi in astrofisica che discusse nel 1945.

La fortuna non ci assiste, il cielo nuvoloso spegne qualsiasi velleitario tentativo di osservazione del cielo con questo vetusto quanto affascinante telescopio, ormai utilizzato solo a fini didattici per i visitatori di Arcetri. Compensiamo la delusione passando alla parte enologica della serata che prevede la degustazione di tre vini vulcanici, ossia prodotti da uve coltivate su suoli vulcanici di cui l’Italia detiene il primato con la maggiore superficie vitata su terreni di origine vulcanica nel mondo. Da nord a sud lo stivale è infatti costellato da aree vulcaniche: i terreni tra Verona e Vicenza, la zona di Pitigliano, Orvieto e del Lago di Bolsena, l’area del Vesuvio e Ischia in Campania, il Vulture in Basilicata, l’Etna e le isole Eolie.


Nel 2012 è nata l’Associazione Volcanic Wines che raccoglie al suo interno tutte le doc di origine vulcanica d’Italia e di cui fanno parte consorzi di tutela, enoteche e comuni. Inizialmente dedita alla promozione dei vini bianchi prodotti da suolo magmatico, l’Associazione pone l’accento sule peculiarità comuni dei vini vulcanici che, sebbene prodotti con vitigni diversi (spesso autoctoni), formano un unico filo conduttore all'interno della produzione enologica italiana. La natura del terreno vulcanico influenza notevolmente lo sviluppo dello vite donandole caratteristiche di grande mineralità, acidità ed eleganti note aromatiche.
La prima degustazione ha come protagonista lo Spumante Brut Lessini Durello Doc della Cooperativa agricola Colli Vicentini. Vinificato in purezza con il Durella, un vitigno autoctono e di antichissime origini, è prodotto secondo il Metodo Charmat lungo, questo spumante sprigiona delicati sentori floreali mentre in bocca risulta particolarmente fresco, con delicate note fruttate.
E’ la volta quindi del bianco Lacryma Christi 2014 dei Feudi San Gregorio, azienda giovane nata nel 1986 in territorio irpino con lo scopo di recuperare il patrimonio vitivinicolo locale. Il nome di questo vino, prodotto sulle pendici del Vesuvio dall'unione di due uve autoctone a bacca bianca (Coda di Volpe e Falanghina), si deve alla leggenda che fa risalire l’origine della vite sul Vesuvio alle lacrime di Gesù.
Caratterizzato da profumi di frutti bianchi e note agrumate, ha una discreta persistenza aromatica; in bocca è morbido, fresco e con una elegante componente minerale.
L’ultimo calice è per Le Sabbie dell’Etna 2012 realizzato dall’Azienda Firriato con vitigni Nerello Mascalese, che dona una ottima struttura e buon corredo aromatico, e Nerello Cappuccio che aggiunge intensità cromatica e la giusta tannicità. Questo vino dal colore rosso rubino brillante, la cui zona di produzione è il comune di Castiglione di Sicilia sul versante nord orientale dell’Etna, è vinificato in vasche di acciaio inox e affinato per 6 mesi in barriques di rovere. Si propone con un bouquet intenso e complesso dove si mescolano mirtilli, ciliegia, pepe e liquirizia; al palato è invece caldo e avvolgente, con una lunga persistenza aromatica e un tannino elegante.
La serata che ha visto il vino incontrare le stelle volge al termine. E con essa l’opportunità di spaziare dalla teoria del big bang alla mineralità dei vini vulcanici.

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domenica 6 dicembre 2015

Storia e misteri della Chiesa di Santa Maria Maggiore a Firenze

A due passi dal Duomo, lungo la direttrice principale che collega la Cattedrale alla stazione di Santa Maria Novella, è tra le più antiche chiese di Firenze. Citata nei documenti fin dal 931 ma esistente già nell’VIII secolo, fu inglobata all’interno delle mura medievali erette nel 1078. Poco avvalorata la data del 580, riportata su una lapide murata nel coro della chiesa, quale anno di consacrazione dell’edificio. Nel 1179 assunse il titolo di collegiata e fu una delle dodici antiche priorie. 

Nella seconda metà del XIII secolo con il passaggio ai Cistercensi fu ricostruita in forme gotiche e le fu donato l’impianto a tre navate divise da arcate a sesto acuto su pilastri quadrangolari.
Come si legge nelle “Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise ne suoi quartieri” di Giuseppe Richa la facciata in pietra grezza risale al 1300 e fu fatta fare da Terrino dei Manovelli. E’ ancora oggi visibile grazie ai lavori eseguiti nel 1912-1913 che rimossero una intonacatura di epoca successiva.
Di età romanica è la torre campanaria, successivamente mozzata all’altezza della facciata, dove risuonava la campana della Cavolaja. Il nome si deve probabilmente al fatto che fu acquistata con il lascito di un’ortolana perché risuonasse ogni giorno, alle quattro del pomeriggio, per avvisare la gente dei sobborghi di Firenze che lavoravano in città di tornare alle loro case prima della chiusura delle porte delle mura. Da quanto riferisce Giuseppe Richa a seguito di una osservazione avvenuta in prima persona sulla torre campanaria, la campana che risuonava al suo tempo era datata 1610 e riportava l’iscrizione in bronzo “Berta”. Tale iscrizione, recuperata da una campana preesistente, identificherebbe il nome di quella donna che con il suo lascito aveva istituito l’usanza del suono della campana, secondo quanto avvalorato anche da Leopoldo del Migliore nella sua “Firenze Illustrata”. 


Fu Chiesa Collegiata fino al 1515 quando perse il titolo e tutti i suoi prosperosi beni che furono concessi da Leone X alla vicina Santa Maria del Fiore. Riacquistò nuovo vigore nel 1521 quando fu concessa ai Padri Carmelitani della Congregazione di Mantova che, originariamente stabilitisi nel Convento di Santa Maria delle Selve a Lastra a Signa, si trasferirono dalla Chiesa di San Barnaba nel nuovo convento di Santa Maria Maggiore. Nel corso del XVII secolo furono apportate trasformazioni all’interno della chiesa per mano dell’architetto Gherardo Silvani, con l’inserimento di nuove decorazioni, stucchi, altari di marmo e una serie di modifiche alle cappelle laterali. Tali cappelle, espressione del mecenatismo delle famiglie Ribotti, Panciatichi, Orlandini, Carnesecchi e Beccuto, erano impreziosite secondo quanto riferito dalle fonti da pregevoli dipinti di Paolo Uccello, Agnolo Gaddi, Masaccio e Botticelli. In particolare la cappella dei Panciatichi conservava sull’altare una Pietà del Botticelli mentre quella dei Carnesecchi una tavola che Vasari affermava essere opera di Masaccio.

Degli originari affreschi trecenteschi si conservano quelli che decorano la cappella maggiore con “Le storie di Erode e la strage degli Innocenti”; nella cappella di sinistra del transetto è visibile invece la “Madonna in trono col bambino”, bassorilievo in legno policromo opera di Coppo da Marcovaldo (XIII secolo). In questa cappella c’è una colonna con iscrizione che segnala la tomba di Brunetto Latini, politico e scrittore maestro di Dante verso il quale il somma poeta nutrì una profonda ammirazione nonostante lo abbia inserito nell’Inferno tra i sodomiti. Il sepolcro del Latini era originariamente sorretto da quattro colonne.
Agli inizi del 1800 Santa Maria Maggiore fu abbandonata dai Carmelitani ai quali subentrò nel 1817 l’ordine dei “Ministri degli infermi di San Camilllo de’ Lellis”.

Il fascino di questa chiesa risiede senza dubbio nella sua millenaria storia e nelle sue grazie artistiche e architettoniche. Ma non solo. Fa da sfondo a uno dei tanti misteri che aleggiano nelle strade e nei palazzi di Firenze e che risulta ancora oggi irrisolto o per lo meno non del tutto chiarito. Sul lato della torre che si affaccia su via de’ Cerretani è infatti murata una testa di donna di epoca tardo romana, la cosiddetta Berta. Intorno a questa testa che osserva dall’alto il via vai continuo di una delle vie principali del centro storico cittadino sono fiorite diverse leggende nel tentativo di dare un senso ad una presenza bizzarra quanto inusuale. Una di queste riporta indietro nel tempo fino al 16 settembre 1327 quando l’astrologo e alchimista Francesco Stabili, conosciuto come Cecco D'Ascoli, si trovava a passare di lì per essere condotto al rogo per stregoneria. Aveva infatti predetto l’inclinazione a “libidine" della futura regina di Napoli, Giovanna detta “la Pazza", nipote di quel Duca di Calabria che non aveva affatto gradito una simile premonizione. Una donna, forse la perpetua del priore, si affacciò dalla torre e sentendo il condannato chiedere dell’acqua urlò a gran voce “se beve, non brucerà più”, intimando a chiunque di dare da bere a quell’uomo che grazie ai suoi poteri magici di alchimista si sarebbe in quel modo salvato. “E tu non leverai più la testa di lì" fu la terribile maledizione che per tutta risposta Cecco lanciò verso la donna. 

Una variante di questa leggenda sostituisce la donna con il sacerdote della chiesa mentre un’altra storia racconta che la testa pietrificata apparterrebbe a una donna che avrebbe osato schernire un condannato al suo passaggio, ricevendo in cambio da questi una maledizione.
Un’altra leggenda si riallaccia invece alle vicende della campana e dell’iscrizione a cui si accennava prima. La testa sarebbe il ritratto di una venditrice di verdure che ogni mattina dalla campagna conduceva il proprio banco carico di ortaggi in quel punto della città. La donna decise di regalare alla chiesa una campana per avvertire i contadini della chiusure delle porte; tale gesto fu particolarmente apprezzato dai fiorentini che decisero di dedicare un busto alla donna come atto di riconoscenza.
Se più indizi fanno avvalorare l’ipotesi che dietro alla donazione della campana ci sia davvero il gesto magnanime di una donna, per la testa di marmo è più probabile credere all’usanza diffusa nel Medioevo di utilizzare reperti antichi quale materiali di riutilizzo.


Quello che è certo è che quel volto di donna è una delle tante curiosità in cui ci si imbatte passeggiando per il centro di Firenze. Se vi trovate a passare per via de’ Cerretani e vi sentite osservati nessun problema: è la Berta che vi guarda.

Santa Maria da Cascia - Primo Conti, olio su tela
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